Consultando un vocabolario, alla voce resistenza si riscontra una definizione chilometrica che, pertanto, sintetizzerei nel modo seguente: “Azione che si sforza di resistere a qualcuno o a qualcosa, che cerca di contrastarli; sinonimo di opposizione: fare, opporre r.; la strenua r. dell’esercito; nel linguaggio comune, opposizione alla volontà altrui”.
Confesso: la parola “resistenza” non mi piace. Oltre a suonarmi come un’espressione della retorica vuota e anacronistica dilagante, sottende degli ideali che non condivido. Stante la sua vasta declinazione semantica, chiarisco che il mio disappunto non si genera per via dei valori politici che inevitabilmente riecheggiano nella parola (alla luce dei fatti storici del secolo scorso), bensì deriva dal concetto che si cela in esso: una disunione affermatasi a seguito della proclamazione di una insolubile dicotomia fra due o più parti, spesso del medesimo organismo. Trovo, infatti, controproducente opporre ad una forza altra forza, alla violenza ulteriore violenza, così come condanno il concetto stesso di opposizione, giacché implica uno scontro diretto e abolisce ogni forma di incontro. Quale soluzione rappresenta mai lo spingersi in un aspro braccio di ferro contro un nemico da annientare al fine di non essere annientati? Nessuna, se ogni forma di unione e pace è negata. La resistenza (e lo scontro alla base di essa) può dirsi conclusa se e quando una delle parti è stata definitivamente schiacciata, soppiantata, si è estinta. Talvolta si tratta di una lotta durissima, come di un corpo le cui membra si attacchino fra loro, non comprendendo che l’obiettivo comune a tutte è il benessere complessivo. Questa metafora, che ritengo esplichi alcune falle del concetto di “resistenza”, venne inaugurata nel 494 a.C., a Roma, dall’allora tribuno della plebe Menenio Agrippa; in seguito alla secessione della plebe sull’Aventino, questi pronunciò un discorso destinato a guadagnarsi fama immortale, soprattutto grazie all’opera dello storiografo Tito Livio che lo intitola “L’apologo delle membra e dello stomaco”. La plebe, stanca dei soprusi perpetratile, decise di ritirarsi sul colle romano, smettendo, così, di assolvere ai propri compiti, umili e scarsamente retribuiti, per reclamare maggiori diritti politico-civili. Il tribuno, allora, rivolgendosi a loro, gli domandò quali effetti potesse mai sortire in tal maniera la plebe, bocca e braccia di un corpo, rifiutandosi di dargli da mangiare in segno di protesta contro lo stomaco; indicò, invece, come via ultima per la pace la comunicazione tra le parti. Similmente, nella realtà presente e concreta la chiave risolutiva risiede nel dialogo e nell’unione fra i soggetti in conflitto, poiché, a mio giudizio, solo restando componente integrante di un corpo, si riesce a modificarlo dall’interno.
Maria Elide Lovero