Due artisti, poeti distanti tra loro nel tempo e nello spazio, che però condividono un testo intimo e dalla tradizione secolare. Sto parlando di François Villon e Fabrizio De André e del file rouge che li lega: la ballata. Il primo è un poeta francese tardomedievale, il secondo un cantautore della seconda metà del nostro Novecento, esponente della cosiddetta scuola di Genova. La ballata come componimento poetico nasce nel Duecento, elaborata con una precisa struttura e un accompagnamento musicale e destinata alla danza. Composta da due o più stanze (cioè strofe), cantate da un solista, ognuna delle quali si divide in due piedi e una volta, uguale alla ripresa; le stanze sono intervallate appunto da una ripresa (un ritornello), eseguita invece da un coro. A testimonianza della fortuna della ballata, durante il Medioevo autori come Cavalcanti e Boccaccio si sono dilettati con questo componimento, più tarde sono le celebri Stanze per la giostra del Poliziano.
Pubblicata solo dopo la morte del suo autore, la Ballata degli impiccati è l’inno di alcuni condannati a morte a cui Villon da voce. In questo testo non viene celebrata la vita o la giovinezza, com’era usanza a quel tempo, – si pensi al Trionfo di Bacco e Arianna del Magnifico – bensì la morte. Ciononostante L’epitaffio di Villon è un’esaltazione del senso di comunità tra i pendus, evocati come “frères humains” (fratelli umani). In questo capovolgimento sta l’originalità rispetto ai modelli dell’epoca e nel carattere realistico malinconico e al contempo leggero della ballata.
Il modo di fare e di scrivere di De André non era poi tanto lontano da quello di Villon: il vivere alla bohémienne, anarchicamente, il frequentare taverne e prostitute, il comporre testi tanto sull’emarginazione sociale quanto sull’amore. All’interno del suo album Tutti morimmo a stento (1968), il cantante genovese inserisce una rivisitazione della poesia di Villon rendendosi rappresentante di quel sentimento popolare e adattandolo al suo tempo. I temi provocatori della ribellione alla morale comune, del divario tra ricchi e poveri, borghesi e operai, della libertà, giustizia e solitudine sono rivalutati in chiave moderna.
Sofia Fasano