L’amore accompagna l’uomo sin dai primordi e ne determina, in una certa misura, la sopravvivenza; le sue declinazioni appaiono, pertanto, innumerevoli: fede in Dio (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”), fratellanza verso il prossimo, sentimento amoroso ed amore di sé. Trattandosi, tuttavia, di un sentimento potente, può generare scenari fra loro molto diversi: nei casi più fortunati, legami intensi, sani e duraturi, mentre, in quelli più infausti, unioni cementate da emozioni tossiche, gelosie e attaccamenti patologici. Simili quadri ricorrono di frequente in ambito letterario, avendo sortito enorme successo il topos dell’amore infelice, argomento di un gran numero di liriche, tragedie, commedie ecarmina. In questo filone si inseriscono, ad esempio, figure femminili come Didone, trafitta dal dolore per la partenza improrogabile del pius Enea; Fedra, fatalmente innamorata di Ippolito (figlio di primo letto del marito); Medea, distrutta dall’abbandono di Giasone, per amore del quale aveva lasciato la sua terra e si era macchiata dei crudeli omicidi di Apsirto, suo fratello, e Pelia. Anche poeti come Catullo, gli elegiaci Properzio e Tibullo e, per analogia, il lirico Mimnermo, che afferma l’insensatezza di una vita priva di eros (“E quale vita, e quale gioia senza l’aurea Afrodite?”), mettono al centro di numerosi componimenti, oltre ai piaceri ed i benefici, lo strazio generatosi dall’amore. A tale problema Lucrezio, autore latino del “De rerum natura” aderente all’Epicureismo, offre una soluzione drastica per i lettori del suo poema: astenersi dalla passione amorosa, fonte di sofferenze per gli amanti che, in tal modo, sono ostacolati nel loro cammino epicureo.
Maria Elide Lovero