Nato a Nola nel 1548, Filippo Bruno decise, ad appena 17 anni, di farsi frate nel convento domenicano di Napoli cambiando nome in Giordano.
Avanzando con gli studi però, Bruno cominciò a mal sopportare la rigidità del pensiero della Chiesa e si avvicinò allo studio della civiltà egizia, considerata superiore perché capace di comunicare direttamente con le divinità grazie alla magia. Questa prospettiva così eterodossa costrinse Bruno a scappare da Napoli e a peregrinare per tutta Europa, toccando vari poli culturali, tra cui Parigi, Londra, Francoforte, Praga, Venezia e Roma.
Ma cosa ha reso Giordano un filosofo così temuto e odiato dalla Chiesa? Bruno, come dicevo, aveva recuperato gli antichi insegnamenti esoterici ed ermetici degli egizi con l’intento di creare una religione magica basata sulla metempsicosi (μετεμψύχωσις, “μετα”: idea di trasferimento, “εν”: dentro “ψυχή”: anima), ossia sulla trasmigrazione delle anime: secondo lui tutto il creato è manifestazione di una materia-vita unica, immutabile, immobile. Le anime quindi non sono individuali, ma sono emanazione dell’uno primigenio al quale si ricongiungono dopo la morte del corpo, e da cui poi ripartono per ricominciare il ciclo.
Negare l’individualità dell’anima significava eliminare il timore del giudizio divino e, di conseguenza, l’ordine sociale stabilito dalla Chiesa. Oltre a questo, Bruno, sulla linea della scoperta di Keplero, criticava l’antropocentrismo: l’uomo è finito, mentre la Verità, quella a cui ognuno di noi dovrebbe tendere, è infinita, e tra finità e infinità non esiste un punto di contatto diretto.
Come fare per elevarsi spiritualmente allora? Attraverso l’esperienza dell’eroico furore. L’uomo furioso, a differenza del sapiente, si muove nella dimensione della malattia e del vizio. Spinge il corpo oltre sé stesso e nel momento massimo del dolore, nel momento di rottura scorge la divinità. Il nucleo della filosofia di Bruno è proprio questa prodigiosa dialettica tra finito e infinito: tra uomo e Dio.
Simone Lucarelli