Il 17 marzo del 1976 ci lasciava il regista Luchino Visconti.
Nato a Milano nel 1906, si trasferisce nella capitale nel 1939 dopo la morte della madre, iniziando a frequentare gli artisti che collaborano alla rivista “Cinema” su cui pubblica anch’egli degli articoli. Ritenuto uno dei padri del nascente neorealismo, “stile” cinematografico, il suo film “Ossessione”, girato tra il 42 e il 43, ne è uno dei primissimi esempi. Durante il secondo conflitto mondiale, partecipa attivamente alla Resistenza, venendo arrestato e torturato e salvandosi dalla fucilazione, tuttavia, dopo la guerra, la sua carriera cinematografica continua.
Si aggiudica numerosi riconoscimenti ai due festival europei maggiori (Venezia e Cannes) con i film “Le notti bianche” e “Rocco e i suoi fratelli”, ma il suo capolavoro è indubbiamente “Il Gattopardo” (1963), tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d’oro.
Durante la lavorazione di “Ludwig”, ultimo film della cosiddetta trilogia germanica (di cui fanno parte “La caduta degli dei” e “Morte a Venezia”, tratto dal romanzo di Thomas Mann) viene colpito da un ictus. Protagonista è il giovane attore austriaco Helmut Berger, compagno di vita del regista che aveva conosciuto anni prima sul set di “Vaghe stelle dell’orsa”. La loro relazione è stata tenuta segreta per anni e Berger si è definito “la vedova di Visconti” al suo funerale. “Gruppo di famiglia in un interno” con Burt Lancaster e “L’innocente” sono i suoi ultimi lavori. Il suo cinema sarà definito dall’autore Alberto Moravia un connubio perfetto tra tematiche sociali e decadenza umana e sociale.
Sofia Fasano