Percorrendo il ponte di Via Daconto per uscire dal centro abitato di Giovinazzo non si può fare a meno di notare la presenza, sulla destra, di un vasto casale, ormai in rovina. Si nota meglio tale struttura se si percorre l’originario tracciato della strada, meglio nota come Via del Piano, ovvero l’arteria che collegava la nostra città con la vicina Terlizzi. Si tratta dell’antico Convento di San Francesco, volgarmente conosciuto come “di S. Antonio”.
Le poche notizie che si possono rintracciare sull’antico edificio sono state raccolte nel 1894 dallo storico locale Giuseppe De Ninno, che ne fece una pubblicazione. Originariamente, tale località era occupata da una chiesa, esistente fin dal XIII secolo, costruita per conto del Giudice Maraldo di Leone Gelasco e intitolata a Santa Maria. Pare che tale chiesa fosse regolarmente visitata dagli abitanti di Giovinazzo quando si recavano al Casale di Corsignano.
L’antica chiesa venne saccheggiata nell’agosto 1529 dal principe di Melfi, Giovan Battista Caracciolo, che aveva cinto d’assedio la città. Dopo tale evento, la struttura rimase abbandonata per alcuni anni, almeno fino al 1535. In quegli anni, su istanza di un tale frate Bonaventura, esponente dei francescani, i giovinazzesi concorsero alla costruzione del vasto convento di cui oggi si osservano le rovine, esattamente dove sorgeva la chiesa precedentemente costruita dal Giudice Maraldo.
Una relazione del 1809, svolta dall’allora sindaco Saverio Cervone, descrive la struttura della chiesa del convento, che probabilmente inglobò e ampliò il vecchio edificio preesistente. Essa presentava, oltre all’altare principale, ben sette cappelle gentilizie, rispettivamente pertinenza delle famiglie Lupis, Chyurlia, Capece-Zurlo, Framarino, Gaudio, Morola e Brayda. In quella dei Brayda, in particolare, si conservava una statua di S. Antonio realizzata dal celebre scultore locale Altieri.
Attorno alla metà del Seicento, per ragioni ignote, probabilmente la peste o la rivolta di Masaniello, il convento rimase per un periodo di tempo soppresso, salvo essere ripristinato nel 1659 dall’allora vescovo Michelangelo Vaginari, esponente egli stesso dell’ordine francescano.
All’epoca della pubblicazione del lavoro sul convento, il De Ninno osservava ancora tracce di antiche iscrizioni tra le rovine della chiesa, riconducibili alle antiche cappelle nobiliari che ivi si trovavano. Nello specifico, ne trascrive tre: una riferita alla famiglia Chyurlia; una che doveva essere posta sul sepolcro di tale Beatrice Paglia; un’ultima che si trovava al piano terra della struttura e che ricordava come il convento fosse stato sottratto nel 1727 a ogni giurisdizione locale.
La struttura venne probabilmente abbandonata durante l’epoca napoleonica, quando vennero soppressi gli ordini religiosi e l’edificio venne prima requisito dal comune e poi venduto a privati. Una parte venne acquisita dalla famiglia Sagarriga, che ne fece una residenza estiva. Il resto dell’edificio, mai restaurato, finì per crollare poco tempo dopo ed essere destinato a stalla. De Ninno riporta anche come le antiche tombe vennero scoperchiate e i resti umani dispersi nei terreni vicini ai fini della concimazione.
Giuseppe Mennea