Negli ultimi anni, il confine tra sacro e profano si è fatto sempre più labile nel mondo della pubblicità. I richiami a simboli religiosi, in particolare quelli legati alla Chiesa cattolica e al cristianesimo, sono diventati un tema ricorrente nelle campagne pubblicitarie. Ma perché, in un contesto così variegato, si tende a utilizzare quasi esclusivamente simboli cristiani, mentre altre religioni sembrano essere protette da una sorta di rispetto?
Un episodio emblematico è quello che ha visto coinvolta la Lituania, dove la Corte europea dei diritti umani ha condannato il Paese per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva utilizzato immagini di Gesù e Maria come “testimonial” della propria campagna pubblicitaria. I giudici hanno stabilito che la multa inflitta per “offesa alla morale pubblica” violava il diritto alla libertà di espressione. Questo caso ha aperto un dibattito importante: è giusto utilizzare simboli religiosi nelle pubblicità? Esiste un limite tra l’uso creativo di contenuti sacri e la loro strumentalizzazione commerciale?
La presenza di riferimenti religiosi nelle campagne pubblicitarie non è una novità. Marchi italiani noti hanno spesso utilizzato temi religiosi per creare giochi di parole, battute e allusioni. Questo approccio, sebbene possa sembrare leggero, tocca corde sensibili e suscita dibattito, specialmente in un Paese con una forte tradizione cattolica.
Ma ci si deve chiedere: ha ancora senso ricorrere a connotazioni religiose per rassicurare o scandalizzare il pubblico? Oppure, si tratta di una strategia obsoleta che distoglie l’attenzione dall’idea creativa originale?
Un aspetto inquietante di questa pratica è il potenziale doppio standard nell’approccio verso le diverse religioni. Mentre il cristianesimo sembra essere un terreno fertile per l’ironia e la provocazione, il ricorso ad altre fedi può essere facilmente accusato di antisemitismo o di odio religioso se vengono toccate in modo simile. Questa apparente protezione per le altre religioni potrebbe suggerire una mancanza di rispetto e una gerarchia di credenze che merita una riflessione più profonda.
L’utilizzo del sacro nella pubblicità solleva interrogativi cruciali sulla libertà di espressione e sul rispetto per le credenze religiose. Mentre la creatività pubblicitaria cerca spesso di spingersi oltre i limiti, è fondamentale considerare le conseguenze delle proprie scelte. La questione rimane aperta: fino a che punto è lecito utilizzare simboli religiosi per fini commerciali e quali sono i confini che non dovrebbero essere superati? La risposta potrebbe risiedere nella capacità di trovare un equilibrio tra creatività e rispetto, evitando di trasformare la fede in un mero strumento di marketing.
Antonio Calisi