Il 7 febbraio 1945, trenta frati minori francescani furono brutalmente uccisi dai partigiani comunisti jugoslavi a Široki Brijeg, un evento che ha segnato profondamente la storia della Bosnia ed Erzegovina. Questi frati, appartenenti al convento locale, sono oggi ricordati come i Martiri di Široki Brijeg, e il loro sacrificio è oggetto di un processo di beatificazione.
La Seconda guerra mondiale portò a una serie di conflitti e violenze in Jugoslavia, in particolare dopo l’invasione nazifascista. Durante questo periodo, fu istituito uno stato fantoccio di Croazia, guidato dal dittatore Ante Pavelić, noto per le sue atrocità contro le minoranze.
La giornata fatale iniziò con un attacco da parte dei partigiani comunisti, che bombardò il convento di Široki Brijeg. Nonostante non ci fosse alcun segno di attività nemica, il convento fu colpito da 296 proiettili. I frati, che si trovavano all’interno, furono catturati e condotti fuori uno ad uno. Rifiutando di abbandonare il loro abito religioso, furono giustiziati, molti con un colpo alla nuca. I loro corpi furono poi bruciati e gettati in una grotta, mentre il regime comunista tentava di cancellare ogni traccia della loro esistenza.
Tra i frati uccisi c’erano figure significative, come Fra Bruno Adamčik e Fra Marko Barbarić, il quale, nonostante fosse ammalato, fu costretto a lasciare il letto per essere giustiziato. La brutalità di questi eventi ha portato a un silenzio durato decenni, in cui il regime comunista proibì qualsiasi commemorazione dei martiri.
Oggi, il ricordo dei Martiri di Široki Brijeg è un simbolo di resistenza e fede in un periodo di grande oscurità. La loro storia continua a essere un monito contro l’oppressione e la violenza, e il processo di beatificazione in corso rappresenta un passo verso il riconoscimento del loro sacrificio.
La memoria dei Martiri di Široki Brijeg è fondamentale per comprendere la complessità della storia balcanica e il ruolo della Chiesa cattolica nel contesto della Seconda guerra mondiale. La loro storia non è solo un capitolo di sofferenza, ma anche un richiamo alla speranza e alla resistenza contro l’ingiustizia.
Antonio Calisi