Terenzio, commediografo latino del II sec. a.C., mette in scena nell’Hecyra (dal greco antico “suocera”) un’ambigua vicenda familiare che al giorno d’oggi farebbe rabbrividire: i giovani Panfilo e Filomena, sposatisi, convivono felicemente, sino a quando la donna non abbandona il tetto coniugale e torna nella casa paterna. Benché in un primo momento tutti credano che tale gesto sia stato determinato da delle incompatibilità con la suocera – la quale si allontanerebbe dalla famiglia pur di salvaguardare il matrimonio del figlio (da qui il titolo della commedia) – nel dipanarsi dell’intreccio scopriamo che Filomena è fuggita per nascondere la gravidanza causata da una violenza subita poco prima delle nozze. Sarà grazie agli interventi risolutori di Bacchide, cortigiana in passato amante di Panfilo, e della madre di Filomena che emergerà la verità: a seguito del riconoscimento di un anello (topos dell’agnitio), sottratto a Filomena durante lo stupro, emerge che il fautore della violenza è proprio Panfilo. Configuratosi, dunque, il giovane come padre legittimo del nascituro, vissero tutti felici e contenti, come del resto si addice ad una commedia. Seppure questo assurdo lieto fine possa lasciarci sbigottiti, fino a qualche decennio fa simili violenze nei confronti di donne furono considerate atti contro la morale pubblica e non la persona, pur violata crudelmente nella sua sessualità e integrità fisica e psicologica. In Italia soltanto con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 viene normato il crimine della violenza sessuale, considerato finalmente un reato contro la persona. Risulta, inoltre, surreale e vergognoso che la cosiddetta legge del matrimonio riparatore sia potuta esistere ed essere applicata nel nostro paese sino al 1981.
L’Hecyra, quindi, ci dimostra ancora una volta come non sempre passato e presente rappresentino realtà lontane, l’una arretrata e superata, l’altra colma di modernità culturale, bensì risulti fondamentale in ogni epoca mettere in discussione la propria (in)civiltà.
Maria Elide Lovero