Il film “Il matrimonio che vorrei” di David Frankel

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Nella filmografia di un pluripremiato regista statunitense qual è David Frankel, noto per aver realizzato, ad esempio, “Il diavolo veste Prada” e “Collateral beauty”, pare di secondo ordine per via dello scarso successo il film “Hope springs” (adattato in italiano come “Il matrimonio che vorrei”): una commedia psicologica e sentimentale uscita nelle sale nel 2012, al centro della quale vi sono due coniugi, Kay ed Arnold, dall’aspetto mesto e monotono, ormai travolti dalla routine, che sembra aver spento irrimediabilmente la passione nel loro matrimonio.

Giunto il trentesimo anniversario, Kay, poco assertiva nell’affermare i suoi bisogni ma conscia della propria sofferenza, propone al marito, uomo schivo e diffidente, una settimana di terapia di coppia intensiva lontano da casa, presso un rinomato specialista (interpretato da Steve Carell). Malgrado le iniziali resistenze di lui, i due partiranno e cominceranno, con l’aiuto del terapeuta, un percorso a tratti molto doloroso di scoperta di sé e dell’altro, nel disperato tentativo di sanare reciprocamente delle ferite profonde ed instaurare una comunicazione autentica. Tale vicenda all’apparenza tanto noiosa quanto comune, oltre ad essere messa in scena da un magistrale cast (composto, infatti, da Meryl Streep, Tommy Lee Jones e Steve Carell), rappresenta, secondo una mia interpretazione psicanalitica della pellicola, il tentativo di Animus e Anima, controparti associate al sesso opposto rispetto a quello di appartenenza nella psicologia junghiana, di prendere contatto fra loro e completarsi armoniosamente. Assistiamo, dunque, al susseguirsi di tentativi, talvolta fallimentari, di riscoprire due archetipi alla base dell’inconscio collettivo e, di conseguenza, dell’amore: Arnold, infatti, si adopera per sviluppare la sua Anima,  formata da capacità d’ascolto, empatia e romanticismo, mentre Kay, invece, persegue l’obiettivo di integrare l’energia maschile, la quale si esprime attraverso tutto ciò che è logico, razionale e improntato all’azione.

Indipendentemente dal finale che lascia sino all’ultimo sospesi, accompagnato da musiche che riflettono l’evoluzione e il dolore dei personaggi (basti citare “Why” di Annie Lennox), si tratta di un libretto di istruzioni per quanti attraversano una crisi, d’amore e non, e non trovano il coraggio di chiedere aiuto o mettere in discussione l’origine della propria sofferenza.

Maria Elide Lovero

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