L’ultima pellicola di Sam Mendes: “Empire of light”

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Da poco uscito nelle sale e già di grande successo (tanto che si parla di Oscar), “Empire of light” del pluripremiato regista inglese Sam Mendes, che deve la sua celebrità a diverse pellicole, fra cui svettano “1917”, “American Beauty” e gli ultimi 007; il film, ambientato in una placida località di mare inglese fra la fine del 1980 e la primavera del 1981, vede al centro della vicenda una cinquantenne, Hilary (interpretata da Olivia Colman), da tempo arresasi alla solitudine e monotonia della sua vita di impeccabile vice-direttrice del cinema “Empire”. Stanca di una routine carica di indifferenza e violenze da parte del direttore del multisala, le quali non fanno che aggravare la sua schizofrenia, pare risorgere grazie all’arrivo di un nuovo collega: un giovanissimo aspirante architetto, Micheal (Stephen Murray), con cui intesse un legame speciale ed intenso, suggellato dalla confessione reciproca, seppur a tratti tacita, delle proprie fragilità; Hilary, infatti, comincia ad intravedere una via d’uscita dalle sofferenze psichiche e la possibilità di amarsi ed essere amata (è straziante per lo spettatore, infatti, assistere ad un’esistenza priva d’amore), mentre Micheal, abituato ad una società razzista e conservatrice, trova nella donna qualcuno che non lo giudichi per la sua etnia o colore della pelle. Grazie al legame che si costituisce fra i due, la donna, alla maniera di un personaggio pirandelliano, prende coscienza che l’origine del suo dolore è rintracciabile nelle soffocanti costruzioni sociali, in cui le violenze razziste ed i soprusi da parte di un superiore sono considerati normali ed accettabili rispetto ad una sofferenza psichica o un tentativo di integrazione. Il messaggio più potente che lancia il film, infatti, è proprio: ciò che in una società è norma, non è quasi mai normale e degno degli esseri umani; risulta chiaro, dunque, il senso della scena in cui Hilary distrugge i perfetti castelli di sabbia che lei stessa aveva collaborato a costruire, segno di insopprimibile ribellione verso una realtà che vanta una perfezione finta e malata, dalla quale si distaccherà, trovando il coraggio di guardare il suo primo film in sala, rendendo la settima arte il punto d’arrivo della propria liberazione.

Sotto numerosi aspetti, inoltre, rintraccio delle analogie con due capolavori del cinema italiano del secolo scorso, quali “Una giornata particolare” di Ettore Scola, in cui i reietti (la donna e l’omosessuale antifascista) appaiono come i soli non allineati al regime di dolore che imperversa nel 1938, e “Nuovo cinema paradiso” di Giuseppe Tornatore, in cui è altrettanto visibile lo strabiliante ingranaggio su cui poggia il mondo del cinema.

Maria Elide Lovero

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