Racconti dalla Puglia abbandonata – Villa Mastroserio e Villa Scippa, residenze in quel di Grumo Appula

La storia di due strutture al centro dei moti Ottocenteschi

  • 0
  • 830 visualizzazioni

Grumo Appula è una cittadina dell’entroterra barese che, confinando con Binetto e Toritto, risulta ricompresa nei territori della Murgia. La città fu nel corso dell’Ottocento al centro dei moti prima rivoluzionari e poi risorgimentali che coinvolsero l’Italia e in particolare il Mezzogiorno, e le cui tendenze furono catalizzate dall’attività di alcune famiglie di cui analizzeremo le residenze estive, ovvero i Mastroserio e gli Scippa. Ma analizziamo prima il contesto storico.

La fine del feudalesimo è fatta risalire alla legge Bonaparte del 2 agosto 1806: i baroni persero la giurisdizione sui territori che controllavano, ma fu loro riconosciuta la proprietà dei beni direttamente amministrati. La rimanente parte fu assegnata ai comuni, che provvidero alla divisione e distribuzione dei terreni tra i privati cittadini, a patto che questi pagassero la tassa fondiaria. Fu così che, coloro i quali potevano permettersi l’attrezzatura agricola e il pagamento della tassa (i “signori”) occuparono gli appezzamenti più ampi e produttivi, mentre alla gente comune toccarono le briciole. Si rese quindi necessaria la distribuzione anche dei terreni della Murgia, che comunque erano molto pietrosi e di scarsa fertilità, i quali terreni furono distribuiti ai nullatenenti. Più tardi, durante le Guerre d’Indipendenza, Grumo fu interessata anche dalla presenza di alcuni cittadini che aderivano alle idee più “radicali” proprie di Garibaldi, tra i quali Domenico Scippa. La famiglia Scippa aveva, tra le altre cose, ospitato negli anni ’20 dell’Ottocento alcuni carbonari perseguitati dalla corona borbonica, col benestare dell’allora sindaco Giuseppe Mastroserio, egli stesso adepto di una società segreta, la Bruto Secondo, fondata da Giovanni Scippa. Tali “garibaldini” occuparono e ottennero la divisione dei terreni di proprietà delle confraternite. Gli ultimi fondi di pertinenza comunale erano le aree boschive che, con l’abolizione della penale borbonica nel 1882, furono definitivamente trasformate in uliveti e mandorleti. Il comune aveva perso tutte le sue terre, ma al contrario i signori si erano arricchiti a dismisura a scapito della gente comune, usurpando terre demaniali e clericali, una situazione che ricorda molto la storia raccontata da Verga in “Mastro-Don Gesualdo”. La situazione collassò con la grave crisi che colpì l’Italia alla fine dell’Ottocento e che comportò una forte emigrazione verso le Americhe. La poca manodopera che rimase in circolazione ora costava molto di più, ma il denaro mancava perché, spesso, era stato speso in enormi palazzi e in oggetti di lusso. Fu così che i grandi terreni dei “signori” subirono la stessa sorte delle terre demaniali, spezzettate e comprate dai cittadini di Grumo che, tornati dall’America, potevano permettersi l’acquisto.

Sia degli Scippa che dei Mastroserio si conservano le residenze estive, attualmente abbandonate e immerse nella campagna di Grumo. Quella più antica è Villa Mastroserio, costruita in stile neoclassico all’inizio dell’Ottocento, su una collina a qualche chilometro di distanza dalla città. È qui che probabilmente furono ospitati i carbonari, anche sfruttando la posizione sopraelevata del luogo che domina l’area circostante. La villa si sviluppa su un unico livello e presenta un suggestivo ingresso sorretto da colonne. Sulla porta d’accesso al grande salone centrale campeggia il motto “Qui si sana”. Gli ambienti interni sono quasi completamente spogli, fatta eccezione per qualche affresco scolorito dal tempo e una nicchia, decorata con una corona, simbolo della famiglia.

Assai più recente è Villa Scippa, che dovrebbe risalire alla fine dell’Ottocento o al più agli inizi del Novecento. È costruita in stile liberty e, a prima vista, ricorda un piccolo castello, con una torre ottagonale a uno degli angoli della struttura. L’edificio, che segue la pendenza di un colle, presenta un livello seminterrato, con i locali destinati all’attività agricola, e il piano nobile: questo, caratterizzato da una decina di stanze, è completamente decorato da affreschi che riprendono i classici elementi vegetali o architettonici. Da una scala che segue il profilo della torre ottagonale si raggiungono quelle che originariamente erano le soffitte e che ora, completamente prive del tetto, si aprono a una vista a 360 gradi sulla campagna circostante.

Giuseppe Mennea

Come l’arte può nascere dal dolore: Fëdor Dostoevskij
Articolo Precedente Come l’arte può nascere dal dolore: Fëdor Dostoevskij
A Gianluca De Candia il Premio Nazionale di Filosofia 2023
Prossimo Articolo A Gianluca De Candia il Premio Nazionale di Filosofia 2023
Articoli collegati

Lascia un commento:

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I tuoi dati personali verranno utilizzati per supportare la tua esperienza su questo sito web, per gestire l'accesso al tuo account e per altri scopi descritti nella nostra privacy policy.