Timoclea, la donna che ebbe la meglio sul suo stupratore

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 In questi giorni, alla luce del nuovo film “C’è ancora domani” della Cortellesi e di svariati aberranti episodi di cronaca, si stanno rimettendo in discussione la parità tra i sessi e, più estesamente, il sistema patriarcale.
Risulta, pertanto, significativo richiamare alla memoria la storia di Timoclea, vissuta nel IV sec. a.C. nell’Antica Grecia, la quale riuscì con coraggio a ribellarsi al suo stupratore.
Nata a Tebe e sorella di Teagene, comandante del Battaglione Sacro, vide la sua città conquistata nel 335 a.C., durante la campagna di Alessandro Magno nei Balcani. Il capo di una banda tracia occupò la casa della donna e la violentò, mettendosi poi alla ricerca di beni di valore; poichè Timoclea intravide nell’avidità dell’uomo una chance di salvezza, lo condusse in un pozzo, affermando che lì conservasse le sue ricchezze. Nel tentativo di scorgere il potenziale bottino, egli si sporse a tal punto che per Timoclea fu facile spingerlo nel pozzo; ella, inoltre, iniziò a lanciargli delle pietre sino ad ucciderlo. Tuttavia, i soldati traci scoprirono quanto accaduto e portarono la rivoltosa presso Alessandro Magno. Narra il biografo greco Plutarco (I-II sec d.C.) nella “Vita di Alessandro” che Timoclea “senza turbamento né timore” sosteneva che fosse stata dura la battaglia di Cheronea per la libertà dei Greci, verso i quali si continuavano a perpetrare violenze terribili; ragione per cui ella disse di preferire la morte ad altri soprusi simili. Alessandro, ammirato dal coraggio testimoniato da quelle parole, la fece liberare.
Furono pochissimi nell’assedio di Tebe a salvarsi, giacché  i Macedoni vollero in quella città mostrare di cosa fossero capaci: diedero alle fiamme gli edifici e soggiogarono in schiavitù la popolazione. La critica moderna ritiene, peraltro, che l’episodio di reazione all’abuso si sia storicamente verificato, segnando un incipit di ribellione significativo nella lotta alla violenza di genere.
Maria Elide Lovero
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