La parola “compagno” ha una storia lunga che ha principio nel Cristianesimo L’origine etimologica della parola compagno risale al latino medievale cum-panis (insieme con e pane), propriamente «colui che mangia il pane con un altro», indicando colui che è legato ad altri da una condivisione profonda e intima, un comune vincolo spirituale, compagni di fede, o che segue la medesima sorte, compagni di martirio, con un chiaro riferimento alla tradizione cristiana e all’eucaristia.
Infatti, il Cristianesimo è una religione che pone al centro la figura di Gesù Cristo, che si è identificato come il Pane della Vita (cfr. Gv 6, 35). Il pane, in questo contesto, rappresenta la comunione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini stessi. In questo senso, la parola “compagno” può essere interpretata come un’espressione di questa comunione. Un compagno è colui che condivide il pane della Vita, ovvero il messaggio di Gesù Cristo. È colui che cammina sulla via della fede e che sostiene i suoi compagni nei momenti di difficoltà.
Esistono varie dimostrazioni dell’origine cristiana della parola “compagno” nel Nuovo Testamento, in diversi passi in cui viene utilizzato per indicare il legame di solidarietà e di amore che unisce i discepoli di Gesù: “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore” (At 2, 44-46).
Nel Nuovo Testamento, la parola “compagno” è usata per indicare i cristiani in diverse occasioni. Ad esempio, Paolo di Tarso si rivolge ai suoi destinatari come “compagni” (synkoinōnos συγκοινωνούς) nella sua lettera ai Filippesi (1,7). In questo passo, Paolo usa la parola “compagno” per sottolineare il legame spirituale che lo unisce ai suoi lettori. L’Apostolo Paolo, nei saluti della Lettera a Filemone così si esprime: «Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timoteo al nostro caro collaboratore Filemone, alla sorella Appia, ad Archippo nostro compagno d’armi e alla comunità che si raduna nella tua casa: grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo. » (Fil 1,1-3)
Anche nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, l’evangelista Giovanni, così si presenta: “Io Giovanni, tuo fratello e compagno (synkoinōnos συγκοινωνός) nella tribolazione, nel regno e nella paziente pazienza che sono in Gesù, ero sull’isola chiamata Patmos a motivo della parola di Dio e della testimonianza di Gesù” (Ap 1,9).
Un’altra dimostrazione dell’origine cristiana della parola “compagno” è il suo uso nella tradizione monastica. I monaci, infatti, si chiamano tra loro “fratelli”, che significa “compagni di tavola”. Il termine fratello è un diminutivo di frate, contrazione del latino frates. A sua volta , il lemma latino trova un riscontro diretto nel sanscrito bhratar, al cui interno troviamo la radice bhar-, legata all’idea di sostentamento e nutrizione. Per questo motivo un fratello, oltre ad essere nato dagli stessi genitori, rappresenta “colui che sostiene”, una sorta di secondo padre (l’etimologia infatti è simile) che accompagna ed è accompagnato per tutta la vita dagli altri “bhratar”. Il termine compagno indica il frate laico che accompagna il frate sacerdote secondo le regole dei vari ordini come scrive Manzoni ne “I promessi sposi”: “ fra Cristoforo … col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta”. Si narra che: “Santo Francesco… giugnendo una sera, al tardi, a casa d’un grande e gentile uomo e potente, fu da lui ricevuto e albergato, egli e il compagno” (“Fioretti”, XXI-967). I Gesuiti della “Compagnia di Gesù” fondata da sant’Ignazio di Loyola, si chiamavano tra loro compagni.
Questo nome indica quindi la loro condivisione di un unico stile di vita, fondato sulla preghiera, sul lavoro e sulla condivisione dei beni.
Nel Medioevo, la parola “compagno” era usata per indicare i membri delle confraternite, ovvero associazioni di laici che si riunivano per praticare la carità e la devozione. Le confraternite erano spesso organizzate in base a professioni o interessi comuni, e i loro membri erano legati da un forte senso di fratellanza. In questo contesto, la parola “compagno” assumeva un significato più ampio, che includeva anche l’idea di condivisione di valori e ideali comuni. I membri di una confraternita erano considerati “compagni” perché condividevano un cammino spirituale e una visione del mondo.
In epoca contemporanea, la parola “compagno” è stata utilizzata anche in ambito politico, per indicare i membri di un partito o di un movimento. In questo caso, il termine ha un significato più ampio, che indica una condivisione di idee e di obiettivi. Tuttavia, anche in questo contesto, la parola “compagno” mantiene il suo significato originario di comunione e condivisione.
Nella cultura socialista, comunista, anarchica e in generale di sinistra (in Italia anche nell’ambito del Radicalismo, ovvero la sinistra liberale e laica) il compagno col tempo si è designato coloro che erano iscritti ai partiti d’ispirazione comunista e socialista o a gruppi politici affini (l’uso ha probabilmente il suo modello nel francese compagnon, di vecchia tradizione nelle associazioni operaie)
Giorgio La Pira chiamava «compagno» il comunista Romano Bilenchi e Bilenchi il democristiano La Pira, e così persone di opposta visione e politicamente quasi nemiche come Lelio Basso e Ugo La Malfa. Era una parola che indicava una solidarietà di fondo, la scelta di campo primaria ed essenziale di stare dalla parte della giustizia sociale.
La parola “compagno” ha un’etimologia profondamente cristiana, che evoca l’immagine di una condivisione profonda, basata su valori di fraternità e di amore. Questo significato è ancora oggi attuale, e può essere un richiamo alla nostra vocazione a vivere in comunione con gli altri.
La parola “compagno” è un invito a vivere in comunione con Dio e con gli altri, in un’ottica di amore e di servizio.
Antonio Calisi