Hai mai sentito parlare di autonomia differenziata? Se la risposta è no, non sorprenderti: perché, tranne che per qualche cenno velato a questa riforma che sarà discussa in Parlamento il prossimo 16 gennaio, sembra che a nessun mezzo d’informazione importi la questione. In questo articolo proveremo a capire perché a tale ddl, sebbene sia evidentemente uno dei cavalli di battaglia dell’attuale Governo, non si è data e non si dà la giusta importanza.
Il Contesto
La storia del progetto di autonomia differenziata è estremamente lunga e complessa. In generale, però, si può far risalire alla narrazione, consolidata ma faziosa, del Nord produttivo e del Sud zavorra del Paese: secondo la politica nordista, cioè, sarebbe l’economia settentrionale a trainare l’Italia, mentre gli abitanti del Meridione starebbero sostanzialmente a guardare la “locomotiva” che va, rimanendo con le mani in mano.
A questa narrazione populista si affiancavano allo stesso modo anche voci più “autorevoli”, sostenitori di dottrine politiche ed economiche quali il federalismo fiscale.
A fronte di questa narrazione e della presunta eccellenza di certe Regioni, già a partire dal boom economico degli Anni ’60, ma con istanze sempre maggiori fino agli Anni ’90, specifici gruppi politici come la Lega Nord hanno richiesto forme diverse di autonomia regionale, sfociando nel secessionismo, con la diffusione di motti spregiudicati contro lo Stato Centrale e contro il Mezzogiorno e i suoi abitanti.
L’apice di tali movimenti si è avuto, come detto, negli Anni ’90, con l’apertura di Berlusconi alla Lega Nord, che, per la prima volta, salì al Governo, facendo un salto di qualità e passando da una condizione squisitamente locale a una di rappresentanza ufficiale degli organi dello Stato. Il 15 settembre 1997, a seguito di una forte radicalizzazione degli ideali del partito, la Lega Nord, nella persona di Umberto Bossi, arriva a dichiarare una Indipendenza della Padania, salvo poi essere perseguita dalla Digos per il reato di attentato all’unità dello Stato.
Nonostante lo squadrismo delle camicie verdi e il carattere eversivo che tutta la vicenda stava prendendo, il Governo di centro-sinistra inizia ad accogliere le istanze nordiste, arrivando nel 2001 alla Riforma del Titolo V della Costituzione in tema di autonomie locali, introducendo l’art. 116. Questo prevede che la legge ordinaria dello Stato possa assegnare ulteriori forme di autonomia, arrivando ad accordare alle singole regioni la giurisdizione su materie di specifica competenza dello Stato centrale.
È il primo atto del federalismo fiscale, che prevede di trattenere sul territorio regionale le tasse qui riscosse. Coerentemente alla previsione di ciò, lo Stato prevede la determinazione dei Lep, i Livelli Essenziali delle Prestazioni, ovvero dei livelli minimi di servizi da garantire in maniera ugualitaria su tutto il territorio nazionale. Questa previsione doveva servire a superare il criterio della cosiddetta spesa storica che, secondo i leghisti, aveva da sempre favorito le casse del Mezzogiorno.
Le diverse commissioni tecniche che si susseguirono per la determinazione di tali Lep, però, non arrivarono mai al dunque, a seguito sostanzialmente della mancanza di sostenibilità finanziaria di tale previsione. In parole povere, l’Italia non ha fondi sufficienti. La Svimez, Associazione per lo Sviluppo dell’Industria del Mezzogiorno, ha calcolato che la mancata applicazione dei Lep ha sottratto alle Regioni meridionali circa 900 miliardi di spesa pubblica in vent’anni, soldi che sono stati dirottati nelle aree ricche del Paese.
Nonostante ciò, la propaganda ha proseguito per la sua strada, portando a ben due referendum consultivi in Veneto e Lombardia. Il primo, nel 2014, dichiaratamente incostituzionale, richiedeva ai cittadini veneti di votare per la nascita di una Repubblica Veneta. Il secondo, nel 2017, si tenne anche in Lombardia. Si chiedeva ai votanti se fossero favorevoli all’attribuzione di maggiori forme di autonomia alle rispettive regioni (un po’ come chiedere a un bambino se voglia o no il regalo di Natale). Ovviamente i referendum hanno dato sempre esito positivo. A ciò seguì una negoziazione col Governo Centrale che culminò in un accordo, nel 2018, cui aderì anche il presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini, che, diversamente da Zaia e Maroni, rispettivamente governatori del Veneto e della Lombardia e di stampo leghista, faceva e fa riferimento al PD.
Nel frattempo, lo Stato aveva previsto nel corso del 2017 una nuova definizione, quella di Lea, Livelli essenziali di assistenza, per indicare i livelli minimi di servizi da garantire gratuitamente ai cittadini in ambito sanitario. È interessante constatare come, attualmente, solo poche siano le regioni a raggiungere tali livelli, concentrate ovviamente in area settentrionale, a seguito della mancata parificazione finanziaria dei servizi.
Che cos’è l’Autonomia differenziata
Dopo la breve parentesi del Covid che ha, in un certo senso, congelato le istanze secessioniste (oltre ad aver messo in luce la falsa efficienza della sanità Settentrionale, completamente collassata a seguito di una privatizzazione sfrenata), queste si sono ripresentate con nuovo vigore alla presa di potere dell’attuale Governo. In particolare, il ministro Roberto Calderoli, leghista della prim’ora e bergamasco, si è da subito messo al lavoro per portare a casa la riforma, anche in vista delle prossime elezioni europee.
La riforma prevede essenzialmente la possibilità per le Regioni a statuto ordinario di richiedere la giurisdizione su servizi fino ad oggi competenza dello Stato centrale, proprio partendo da quanto statuito dall’art. 116. Oltre a mantenere le tasse riscosse sul territorio regionale, il ddl consente alla Regione in essere di ottenere da Roma il denaro necessario a gestire autonomamente tali servizi, andando praticamente a sottrarre risorse di cui tutti gli altri potrebbero giustamente usufruire.
Ma a ciò, il Ministro oppone la determinazione dei Lep: questi che, ricordiamolo, non sono stati calcolati in vent’anni, secondo Calderoli potranno essere calcolati in circa sei mesi, incurante della ormai convalidata insostenibilità finanziaria di tale definizione.
Ovviamente, la negoziazione operata dalle singole Regioni partirà sulla base delle intese del 2018, allorquando Lombardia e Veneto chiesero la giurisdizione praticamente di tutte le materie di pertinenza dello Stato, secondo il concetto del “chi prima arriva, meglio alloggia”. Inoltre, le intese avranno durata decennale e potranno essere rinnovate automaticamente senza l’intervento del Parlamento.
Le problematiche
Si tratta, come affermato dal Prof. Viesti, ordinario di economia presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, di una “secessione di fatto”.
Oltre al fatto che la riforma non è finanziariamente sostenibile, come detto, bisogna considerare tutta una serie di problematiche materiali legate al progetto. Sostanzialmente, ogni Regione potrà avere delle leggi diverse, delle proprie graduatorie, dei propri servizi e dei propri livelli di stipendi, in contrasto con i principi di uguaglianza statuiti dalla Costituzione.
Cosa ben più grave, verrebbe meno il Principio Solidarista, che già da sé smaschera la narrazione nordista. Secondo questi, infatti, è loro diritto quello di trattenere le tasse pagate da loro sul territorio regionale. Le imposte, però, sono calcolate sul reddito prodotto, e non è una colpa dei Meridionali se i soggetti con reddito maggiore siano concentrati in Veneto o Lombardia. Sarebbe come dire che, siccome a Bari il reddito medio delle famiglie è più alto, allora Bari mantiene i cittadini di Giovinazzo.
È, questo, il funzionamento normale di uno Stato civile, secondo cui chi produce di più paga di più, in modo da garantire pari servizi e opportunità a tutti (anche se ovviamente alle volte la tassazione è esagerata, ma non è questa la sede).
A questa narrazione bisogna poi aggiungere i dati sull’evasione fiscale che, in termini assoluti, è assai più alta in Nord Italia, rispettivamente 23,4 miliardi l’anno per il Nordovest e 17,6 miliardi per il Nordest: complessivamente fanno 41 miliardi di euro evasi l’anno, contro i 29,1 miliardi del Mezzogiorno (dati Istat 2023 estrapolati dalla Cgia di Mestre). La statistica, quindi, sbugiarda anche la narrazione del cosiddetto residuo fiscale, secondo cui Lombardia e Veneto riceverebbero meno fondi rispetto alle tasse che pagano.
Conclusioni
Fatte queste considerazioni, appare chiaro come ci sia stata una scarsissima pubblicizzazione di tale ddl, che agli occhi di molti sembra essere una vera e propria merce di scambio per l’attuazione del Presidenzialismo, l’altro cavallo di battaglia dell’attuale Governo.
L’unica cosa che si può quindi fare al momento è sperare che i politici Meridionali si sforzino di votare coerentemente, per evitare l’ennesimo e definitivo scippo di risorse al Mezzogiorno.
Giuseppe Mennea