La chiesetta di S. Pietro Pago: un edificio destinato a sparire

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Si noti la differenza tra la parete più antica della chiesa, a taglio regolare, e quella della casina, a taglio più indefinito.

Lungo l’antica strada Quorchio che collega Giovinazzo a Bitonto, nei pressi della ben più famosa discarica, sorgono i ruderi della chiesetta di S. Pietro Pago, importante edificio altomedievale che rischia di scomparire nell’indifferenza di tutti.

Il sito ricopre una certa importanza tra i casali giovinazzesi, dato che per conformazione è fatto risalire addirittura al X o all’XI secolo. Sorse secondo alcuni sul prediale di Revidianum: il prediale era un appezzamento di terra che era, in epoca romana, assegnato ai soldati al termine del loro servizio. Quello in questione sarebbe appartenuto a tale Revidius, che viene citato in alcune epigrafi rinvenute tra la Puglia e la Calabria.

Tale circostanza deve aver spinto lo storico locale don Filippo Roscini a ipotizzare la presenza di un qualche tempietto pagano nel luogo in cui sorse il centro di culto (“Giovinazzo e i suoi Casali”, 1977; “La Torre di Rufolo: nell’agro, nella storia e nelle leggende di Giovinazzo”, 1972).

Tracce delle fondazioni.

La chiesetta è indicata nei documenti dell’Archivio Diocesano come “San Pietro de Pavo” o “de Pavone”, cioè di pertinenza di un tale Paolo (forse un riferimento al celebre Pavone Griffi, importante esponente del clero locale del XIV secolo, che tra le altre cose fece costruire la Chiesa dello Spirito Santo).

Volgarmente, però, è rimasta la denominazione di “Pago”, dal latino “pagus”, che indicherebbe la presenza in zona di un villaggio. E i resti di ulteriori strutture diverse dalla chiesa, effettivamente, vennero alla luce nel corso del 1975, quando nell’area furono effettuati dei lavori di scavo per la realizzazione di una cava.

Fu in quell’occasione che si rinvenne la chiesetta, che nel corso del tempo era stata in un certo senso “sotterrata” da una casina, realizzata per conto di tale Domenico Facciolla nel 1880. Di tali lavori era presente indicazione in un’epigrafe posta all’ingresso della casina almeno fino al 2017. In tempi recenti, tale epigrafe risulta trafugata, con grave danno anche strutturale per l’edificio.

In ogni caso, le tracce rinvenute negli anni ’70 di adiacenti strutture vennero completamente demolite per far spazio alla cava stessa.

Interno della casina.

Pare sia divenuto un convento dei Padri Olivetani nel corso del XIV secolo, salvo poi subire una serie di razzie nel corso del ‘400 ad opera del condottiero Vitelleschi e dell’Orsini, personalità che misero a ferro e fuoco l’agro giovinazzese. Risulta tra le proprietà dipendenti dalla badia di San Leone Magno a Bitonto, cui fece capo almeno fino al XVI secolo. Fu poi il principe Caracciolo nel 1529 a determinare, con le sue scorrerie militari, il definitivo abbandono del sito.

La particolarità dell’edificio sta nel fatto di presentare tutte le caratteristiche degli edifici cristiani altomedievali, con particolare somiglianza al casale di Pacciano di Bisceglie. Permangono tracce dell’abside semicircolare, dove pare si conservassero tracce di affresco osservabili fino a pochi decenni fa. Con ogni probabilità, doveva essere presente una cupola in asse, con copertura a chiancarelle.

L’epigrafe trafugata (foto P. Fallacara).

Ad oggi la situazione risulta essere parecchio critica: l’abbandono, i crolli, un pesante incendio verificatosi nel giugno 2021 hanno definitivamente segnato il destino dell’antico casale che, salvo interventi straordinari di conservazione, è destinato a sparire.

Giuseppe Mennea

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