Nei giorni trascorsi di celebrazione della Pasqua cristiana, si è rievocata la figura di Ponzio Pilato, funzionario romano in Giudea tra il 26 e il 36 d.C., noto per il ruolo che svolse nella passione di Gesù. I Vangeli testimoniano, infatti, come egli, nella carica di prefetto, fu giudice nel processo di Cristo ed emise la condanna alla crocifissione.
Ponzio Pilato, (in latino: Pontius Pilatus; in greco: Πόντιος Πιλᾶτος, Póntios Pilâtos; in ebraico: פונטיוס פילאטוס; (6 , è un personaggio del Nuovo Testamento, nato forse in Abruzzo nel 16 a.C., presente in tutti e quattro i Vangeli (nei sinottici di Matteo, Marco, Luca e nell’apocrifo di Giovanni) ed anche negli Atti degli Apostoli e nella Prima Lettera a Timoteo.
Sulla base di dettagli biografici incerti e sfumati la tradizione cristiana ha elaborato notizie come il nome di sua moglie, Claudia, canonizzata dalla Chiesa greco-ortodossa, e competizioni fra località che si contendevano la natalità del funzionario.
Inviato da Tiberio in Giudea, tentò di introdurre il culto dell’imperatore, ordinando di uccidere i Giudei che si fossero sottratti da tale usanza; nel 36 fu destituito dal governatore della Siria Vitellio ed inviato a Roma, con l’accusa di aver perpetrato abusi nei riguardi dei Samaritani, alleati di Roma.
La sua carica di prefetto è testimoniata da un frammento di iscrizione latina, nota come “Iscrizione di Pilato”, rinvenuta a Cesarea Marittima e datata al regno di Tiberio (14-37 d.C.). A differenza dei suoi predecessori spostò gli eserciti da Cesarea a Gerusalemme e fece introdurre vessilli recanti le raffigurazioni dei busti dell’imperatore al posto degli stendardi privi di ornamenti, rispettosi della legge ebraica. Tale mutamento provocò una decisa reazione giudaica tanto che il movimento di protesta fece sì che si riportassero le insegne a Gerusalemme. Nel Vangelo di Luca, inoltre, gli si attribuisce la colpa di aver ucciso dei Galilei nel corso della predicazione di Gesù (28-30 d.C.).
Il giorno prima della Pasqua ebraica, Gesù fu condotto in catene dalla casa del sommo sacerdote Caifa sino al pretorio al cospetto di Pilato. Udite le accuse dei sinedriti, che consistevano in sedizione, rifiuto del pagamento dei tributi all’imperatore ed autoproclamazione a re e Messia, interrogò Gesù, senza però rilevare colpe da punire e convincendosi della sua innocenza. Vista l’insistenza degli accusatori, decise di inviarlo al tetrarca Erode Antipa, sovrano della Galilea, il quale non trovò neanche lui ragioni per condannarlo.
Pilato, riluttante all’idea di emettere la condanna a morte, tentò in vari modi di salvarlo: in un primo momento propose di graziarlo facendo appello alla consuetudine di liberare un prigioniero a Pasqua, ma, non sortendo i risultati sperati, suggerì di flagellarlo per poi lasciarlo andare. La folla e i sinedriti, tuttavia, si opposero, domandando la liberazione di Barabba. Egli, allora, espresse la propria innocenza per il sangue del morituro, lavandosi le mani in pubblico, come racconta Matteo (Mt 27,24 ). Tentò, infine, di impietosire la folla mostrando Gesù martoriato, ma a nulla servì la visione di una tanto grande sofferenza per placare gli animi della folla. E, dunque, paventando tumulti e ritorsioni che gli recassero l’accusa di tradimento per aver protetto un uomo con ambizioni regali, cedette, dopo un altro tentativo in tribunale, consegnandolo ai soldati perché lo crocifiggessero sul Golgota.
La celebre iscrizione posta sulla croce (“INRI”), recante il motivo della condanna, fu composta dallo stesso Pilato: fece scrivere in ebraico, greco e latino “Gesù il Nazareno, re dei Giudei”, dicitura che per via della sua ambiguità provocò le lamentele dei sommi sacerdoti; ciononostante Pilato si rifiutò di apportarvi delle modifiche.
Testimonianze del suo governatorato emergono anche da autori non cristiani molto celebri, quali Filone di Alessandria, Cornelio Tacito e Giuseppe Flavio: quest’ultimo in particolare, in “Antichità giudaiche” XVIII, 63-64, passo noto col nome di “Testimonium Flavianum” sulla cui paternità i critici si dibattono da secoli, narra: “Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce (…)”.
Nell’immaginario collettivo, la figura di Pilato rappresenterebbe chi, avendo incarichi di responsabilità, evita ipocritamente o pavidamente di assumere una posizione e pronunciarsi; di qui si origina la frase “lavarsi le mani come Pilato”. Tale immagine sarebbe divenuta tanto celebre che nella Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321), secondo diversi critici fra cui Giovanni Pascoli, nel canto III de L’ “Inferno”, dedicato agli Ignavi, “colui che fece per viltade il gran rifiuto” sarebbe da identificare proprio con Pilato, anche se la maggior parte dei critici ritiene che si tratti di Celestino V.
Maria Elide Lovero