L’Università degli Studi di Bari Aldo Moro è stata la quarta tappa del progetto “Masterclass tour” con ospite Edoardo Leo. Il noto regista e attore ha incontrato gli studenti dell’università barese presso l’Aula Magna Aldo Cossu discutendo sui temi del suo ultimo film, Non sono quello che sono.
La pellicola, che dal 14 novembre uscirà nelle sale cinematografiche, è tratta dall’opera di William Shakespeare Othello, the Moor of Venice e ambientata nei primi anni 2000.
«Abbiamo iniziato questo tour venerdì scorso partendo da casa mia, “La Sapienza” di Roma mentre ieri sono stato a Caserta e a Napoli. Mi sono ricordato di quando sono stato studente come voi. L’Università è un posto dove ho studiato e sognato» ha detto Leo rivolgendosi agli studenti in aula. «Credo sia uno dei miei migliori film. C’è una materia interessante dal punto di vista accademico: ho fatto una traduzione integrale in dialetto di un’opera complessa ma allo stesso tempo semplicissima come l’Otello.»
L’idea di girare questa pellicola nasce in tempi non sospetti: «Io da tanto tempo mi occupo di violenza di genere e volevo fare un film per cercare di raccontare meglio questo argomento. Durante questi quindici anni di lavoro, ho notato quanto sia incredibile come quel rapporto malato di possesso e il rapporto di coppia non fosse cambiato dal 1604: questa cosa ci deve far pensare tanto.»
Leo ha inoltre spiegato la scelta di aver tradotto l’opera nei dialetti romano e napoletano: «Il tema della traduzione è complesso: ne ho confrontate più di una partendo dal 1800 e ognuna di essa era figlia del tempo in cui era stata fatta. Io ho voluto fare una traduzione integrale togliendo l’aspetto romantico di Otello ma senza ovviamente cambiare il testo originale. Tradurre significa portare da un’altra parte, Umberto Eco diceva “tradurre è dire quasi la stessa cosa”. Ho usato il dialetto romano in quanto abbastanza comprensibile per tutti e consente di distinguere certe immagini. Non potevo cambiare le parole ma quello che non c’era tra l’una e l’altra. Per cui ho lavorato sulle non risposte, spazi dove ho potuto mettere la mia visione del testo senza modificarlo. È stato un lavoro lunghissimo e complicato.»
Non mancano ovviamente i riferimenti al tema duro come la violenza domestica: «Ho deciso di prendere un classico per capire le dinamiche psicologiche che portano un maschio a passare da un amore profondo a un vortice profondi di rapporto malato. L’Otello ci racconta quello che fanno ancora oggi molti uomini»
Il rapporto tra Desdemona e Otello porta l’ospite ad analizzare il complesso argomento della gelosia: «Conosciamo tante parole per poter descrivere cose di natura diversa ma utilizziamo un solo vocabolo: gelosia. Lo usiamo quando proviamo un sentimento di malessere nel momento in cui la persona che amiamo è lontana e abbiamo paura che possa incontrare qualcun altro e lasciarci. Picchiare una donna perché è stata in un posto e presumiamo abbia fatto qualcosa è allo stesso tempo gelosia: c’è qualcosa che non mi torna…»
Tornando a parlare di stereotipi maschili e femminili: «Dal punto di vista del linguaggio, a un certo punto Otello chiama puttana Desdemona. Noi facciamo la stessa cosa quando vogliamo insultare una donna: anziché dire una parolaccia utilizziamo quella parola. Ma perché non esiste il corrispettivo maschile? In passato per strada un uomo che insultava una donna la chiamava puttana, mentre agli uomini veniva detto cornuto.» Sulla questione è intervenuta anche la docente di psicologia Antonietta Curci: «È incredibile la costruzione di genere dove la donna è rappresentata semplicemente sul piano sessuale. Mentre per l’uomo, sul piano degli insulti, si fa riferimento a madri, sorelle, ecc. È un linguaggio forte figlio della costruzione dei ruoli.»
Rispondendo a una domanda di uno studente sul passaggio dalla commedia a un film drammatico, il regista romano ha dichiarato: «Capisco che una persona viene etichettata per le cose dove ha avuto successo. Quest’anno festeggio 30 anni di carriera dove tra teatro e cinema ho avuto insuccessi clamorosi. A un certo punto nella vita fai 3 o 4 commedie che funzionano e il pubblico si ricorda solo per quelle, come Perfetti sconosciuti, Noi e la Giulia o Smetto quando voglio. Ma io non sono solo commediante. I miei interessi erano questi già da prima: questo film l’ho cominciato a scrivere ancor prima del mio esordio in regia. Capita che con l’età cresci e ti va di misurarti in contesti diversi. Negli ultimi anni non mi andava di fare altre commedie e ho cominciato a parlare di altri temi»
Il cinquantenne usa parole paterne per il suo ultimo capolavoro: «Potevo anche non fare questo film. Avessi fatto una commedia avrei potuto tranquillamente guadagnare di più. Ma io volevo farlo, sto girando le università col rischio di trovare qualcuno che mi dica di aver commesso qualche errore. Mi sono messo in gioco, sentivo di volerlo fare»
Discostandosi dal film, Leo è intervenuto in difesa del mondo dello spettacolo: «C’è una diatriba molto pericolosa in corso secondo cui gli artisti sono dei nullafacenti che hanno deciso di fare un mestiere facile. Non è così: mi sono dovuto pagare da solo le tasse universitarie, ho venduto i fiori al cimitero e portavo il latte nei vari bar. A volte un libro può cambiarti o migliorarti la vita.
Nessuno compra più i libri di poesia però nella vita succede qualcosa di strano: ti capita un momento di dolore, si perde un genitore, un fratello o una sorella. Ti senti completamente solo. Ti capita quel giorno di leggere una poesia su Instagram o il testo di una canzone, scopri quindi che una persona che non conosci ha parlato in maniera precisa di quello che stai provando e capisce quel dolore: ti senti meno solo. In quel momento la poesia non è letteratura ma è medicina.
Capita lo stesso quando ci si innamora: prima di regalare cose fisiche, la prima cosa che si fa è dedicare le canzoni. E chi le ha scritte? Qualcuno che non conosciamo e che ha saputo scrivere ciò che proviamo. E se la cantiamo, uno si apre e la musica, la letteratura e la recitazione in quel momento non sono parole ma cura per la nostra anima. Per cui chi fa il mestiere dell’artista è un nullafacente dice una castroneria lontana dalla realtà.»
Non manca una riflessione sui giovani: «A volte ho la sensazione che questa generazione di ragazzi venga vista in una maniera sbagliata rispetto a quello che realmente sono. Come loro stanno costantemente su Instagram, la mia generazione giocava con altrettanto frequenza ai videogiochi. Abbiamo la necessità di attaccare i giovani perché abbiamo paura di loro. In una sola cosa sono diversi: hanno meno maestri a cui appellarsi, figure che hanno segnato una vita politicamente e culturalmente. È una sfortuna storica. In questo loro hanno meno ideologie di riferimento, perciò iniziano a seguire altri guru che però non hanno lo stesso spessore di persone culturalmente colte.»
Paolo Gabriel Fasano